L’S&P500 è sui record storici e il Dax è sopra i massimi del 2016 segnati il 
21 aprile, mentre il Ftse Mib annaspa ancora sotto il livello immediatamente 
precedente il referendum britannico del 23 giugno. In questo scenario almeno la 
metà degli investitori internazionali sta meditando di aumentare le posizioni 
azionarie dopo il rientro dell’allarme Brexit. In assenza di altri pericoli 
immediatamente individuabili per l’investimento in borsa nei prossimi due mesi, 
ovvero fino al referendum costituzionale italiano, l’attenzione degli operatori 
si è focalizzata sulla Federal Reserve, ovvero sulle probabilità e sulla 
tempistica di un secondo rialzo dei tassi dopo quello del dicembre 2015.
Le 
indicazioni uscite da Jackson Hole hanno aumentato la probabilità di assistere 
entro la fine del 2016 al nuovo rialzo del costo denaro Usa, che ora si 
attestano tra il 30 e il 35% in riferimento al meeting del 21 settembre (erano 
al 20% prima del simposio americano) e sfiorano il 65% per quello del 14 
dicembre. Tale aumento delle probabilità, dovuto al possibilismo espresso dalla 
presidentessa Janet Yellen se i dati macroeconomici confermeranno la solidità 
della ripresa e alle parole da falco del suo vice Stanley Fischer, arrivato a 
ipotizzare due rialzi entro l’anno in presenza di nuovi aumenti di occupazione e 
inflazione, ha rafforzato il dollaro ed esteso la flessione di oro e argento, 
che sono ormai tornati ai livelli precedenti la Brexit, mentre a Wall Street ha 
procurato per il momento solo un aumento della volatilità a ridosso dei record 
storici.
Ma non è solo l’incertezza sul prossimo passo della Fed a far crescere 
la voglia di realizzare i guadagni estivi sul listino Usa: gli operatori 
americani temono anche l’arrivo di settembre, mese che, secondo le statistiche, 
è il mese più negativo per la borsa Usa (sul tema si veda altro articolo a 
pagina 13). Si vedrà come andrà quest’anno; resta il fatto che la tenuta di Wall 
Street, e magari ulteriori ritocchi del record storico segnato il 15 agosto a 
quota 2.193 dall’S&P500 e bissato il 23, è un elemento indispensabile per 
offrire a Piazza Affari l’opportunità di mettere a frutto, almeno fino a qualche 
settimana di distanza dall’insidioso referendum costituzionale, il fatto di 
essere rimasta indietro rispetto ai listini europei a causa principalmente delle 
banche.
La domanda principale è dunque se il listino Usa sia o meno sopravvalutato a 
questi prezzi record: per rispondere lo studio più fresco e consistente arriva 
da FactSet. La prima evidenza, poco confortante, indica che il secondo trimestre 
2016 ha registrato utili in discesa del 3,2% rispetto allo stesso periodo 
dell’anno precedente ed è stato il quinto trimestre consecutivo in calo. Tale 
sequenza negativa era stata registrata per l’ultima volta a cavallo fra il 2008 
ed il 2009 (dal terzo trimestre 2009 al terzo trimestre 2008), quando il default 
di Lehman Brother innescò l’ultima recessione.
Tuttavia gli analisti avevano 
complessivamente stimato un calo superiore dei profitti relativi al secondo 
trimestre del 2016, pari al 5,5%, stemperandone la negatività: il 71% delle 
società ha riportato infatti utili sopra le attese degli analisti, mentre il 54% 
ha superato il consenso del mercato sul fronte dei ricavi, consentendo a Wall 
Street di recuperare velocemente lo scivolone post-Brexit fino a varcare l’11 
luglio il precedente record storico a quota 2.135, testato più volte invano nel 
corso del 2015 e nella prima metà del 2016. Rapportando queste risultanze 
aziendali ai prezzi di borsa si può avere un quadro più preciso dello stato di 
salute della piazza americana: a livello di 2.172 punti dell’S&P500 
l’earning yield dell’indice, ovvero l’inverso del rapporto prezzo/ utili stimato 
per tutto il 2016, è pari al 5,91% e si confronta con una media del 7% nell’arco 
degli ultimi dieci anni (ovvero i prezzi erano più bassi del 16% in relazione 
agli utili) che scende al 6,8% negli ultimi cinque anni (che comporta prezzi più 
bassi del 13%).
La sola analisi del rendimento dell’indice non è tuttavia 
esaustiva: per avere un quadro più preciso dello stato di valutazione di Wall 
Street è necessario prendere anche in considerazione il livello dei Treasury a 
10 anni, meglio se depurati dall’inflazione tendenziale, che costituisce l’altro 
piatto della macro-bilancia che raccoglie gli investimenti finanziari. Le 
quotazioni azionarie tenderebbero infatti a essere più elevate durante i periodi 
caratterizzati da una discesa dei rendimenti dei bond, perché il mercato 
azionario diventa più appetibile, mentre varrebbe l’opposto nelle fasi 
caratterizzate da una crescita dei rendimenti obbligazionari.
Negli ultimi dieci 
anni il rendimento medio dei titoli decennali Usa è stato pari al 2,9% (1,1% al 
netto dell’inflazione), risultato che scende al 2,15% prendendo in 
considerazione gli ultimi cinque anni (0,75% al netto dell’inflazione) e si 
attesta ora all’1,6% (0,8% al netto dell’inflazione). Rapportando le tre 
misurazioni dell’earning yield di Wall Street (media 10 anni, media 5 anni e 
dato attuale) con le relative misurazioni medie dei rendimenti al lordo 
dell’inflazione dei Treasuty decennali riferite agli stessi periodi, si scopre 
che le quotazioni azionarie attuali sono poco più care (nella misura del 5,5%) 
rispetto alla media storica degli ultimi cinque anni e contemporaneamente 
risultano leggermente meno care (in misura pari al 2,4%) rispetto alla media 
storica degli ultimi dieci anni.
Procedendo allo stesso modo, ma utilizzando i 
rendimenti dei titoli di Stato a 10 anni al netto dell’inflazione, emerge una 
maggior sopravvalutazione attuale del listino Usa: nell’ordine del 12% rispetto 
alla media degli ultimi dieci anni e del 14% rispetto alla media degli ultimi 
cinque. Tutto ciò, unito al fatto che il Vix (l’indice che misura la volatilità) 
ha sfiorato il livello storicamente minimo a metà agosto (10,5%) ed è ora 
fotografabile poco più in alto (13-14%) con una volatilità in aumento, 
costituisce la vera minaccia di correzione di Wall Street, dove il primo 
campanello di allarme suonerebbe con l’eventuale cedimento del sostegno di breve 
periodo posto a 2.140-2.135 punti dell’S&P500, mentre il secondo scatterebbe 
sotto quota 2.110-2.105.
Borsa italiana e dati macroeconomici
I dati macroeconomici sottotono 
diffusi nelle ultime due sedute della settimana appena conclusa, riferiti 
all’attività manifatturiera e all’occupazione, tendono a escludere che la Fed 
agirà il 21 settembre, anche perché ciò non è mai avvenuto quando le aspettative 
sono inferiori al 50%, sostenendo la bozza di recupero delle materie prime e lo 
slancio conclusivo dei mercati azionari. Il Ftse Mib è riuscito così a chiudere 
la seduta di venerdì 2 al di sopra dell’evidente ostacolo posto a 17.000 punti, 
aprendo così la strada del ritorno verso i valori immediatamente precedenti il 
referendum britannico compresi tra 17.400 e 18.000 punti, con quest’ultimo 
livello che corrisponde a 10.350 punti del Dax, già riconquistati il 9 agosto.
 Piazza Affari ha dunque a portata di mano la possibilità di allungare il passo 
sostenuta dai titoli bancari, che in borsa sono rimasti più indietro rispetto 
agli istituti di credito europei: il 30 agosto l’indice settoriale Eurostoxx 
Banks si è infatti lasciato alle spalle il livello di 93 punti, mentre lo stesso 
livello dell’indice Ftse Banks Italia, posto a quota 8.240 (analogo a quota 
17.000 del Ftse Mib), è stato conquistato solo di misura nelle ultime due 
sedute, lasciando spazio a un maggiore apprezzamento: l’obiettivo a 9.500 punti 
dell’indice settoriale italiano comporterebbe infatti un apprezzamento 
nell’ordine dell’11%, che si confronterebbe con il +4,8% che separa il Ftse Mib 
dall’analogo obiettivo rialzista posto a quota 18.000 punti.