lunedì 24 aprile 2017

Convengono i PIR? Pro e contro

In questo periodo molti risparmiatori italiani si vedono proporre i cosiddetti Pir, consigliato in quanto conveniente grazie agli incentivi fiscali.

I Pir (Piani individuali di risparmio, introdotti dalla Legge n° 216 dell’11/12/2016) costituiscono una nuova formula di risparmio che, nelle finalità governative, ha lo scopo di dirottare una parte del risparmio privato verso le Pmi italiane (onde stimolare l’economia nazionale), offrendo alcuni incentivi fiscali a fronte della detenzione dell’investimento per un periodo medio-lungo. Inclusi, con forte risonanza, nell’offerta distributiva di molti competitor del risparmio gestito, i Pir riservati a risparmiatori individuali si contraddistinguono per il fatto di rappresentare un «contenitore fiscale e giuridico» che può concretizzarsi con differenti forme (fondo comune, deposito titoli, gestione patrimoniale, contratto assicurativo) e con un portafoglio sottostante avente prodotti finanziari diversi (strumenti azionari, obbligazionari, monetari, depositi e conti correnti) nei limiti quantitativi e qualitativi stabiliti dalla legge.
Gli strumenti finanziari detenuti (direttamente o indirettamente) nei Pir beneficiano dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni e da quella sul capital gain, se mantenuti, per almeno 5 anni (pena la perdita dell’agevolazione fiscale). La norma prevede precisi e ulteriori vincoli alla composizione del portafoglio.

 In primo luogo, in ciascun anno solare di durata del piano, per almeno i due terzi dell’anno stesso, almeno il 70% deve essere costituito da strumenti finanziari, anche non negoziati nei mercati regolamentati o nei sistemi multilaterali di negoziazione, emessi da società italiane ed estere (Unione europea e Spazio economico europeo), che svolgono attività diversa da quella immobiliare e con stabile organizzazione in Italia.

In secondo luogo, almeno il 30% di questa quota (quindi, minimo il 21% del valore complessivo degli investimenti) deve avere per oggetto strumenti finanziari emessi da società italiane ed estere, localizzate e con le caratteristiche sopra menzionate, diverse da quelle rilevanti ai fini dell’indice Ftse Mib o di indici equivalenti di altri mercati regolamentati (con l’ulteriore limite della percentuale massima pari al 10% del totale investibile in strumenti finanziari di uno stesso emittente o in depositi e conti correnti).

In terzo luogo, l’importo investibile nei Pir: minimo 500 e massimo 30mila euro all’anno per ogni persona fisica (e non già titolare di altro piano di risparmio) entro un limite complessivo di 150mila euro in 5 anni. Con riferimento, invece, alle attuali criticità o potenziali tali (sotto il profilo dell’investitore) di tale formula di risparmio, a parere di chi scrive, si possono evidenziare, senza pretesa di esaustività, le seguenti: il riferimento, per quanto riguarda i vincoli alla composizione di portafoglio dei Pir, al requisito della «stabile organizzazione in Italia» e agli «indici equivalenti in altri mercati regolamentati », costituisce un limite per l’individuazione di società idonee investibili al di fuori di quelle italiane; la disposizione di legge richiede, per la composizione di portafoglio, il mantenimento della percentuale del 70% (e del 30% di questo 70%, ovvero il 21%) per almeno i due terzi dell’anno solare (anche con carattere di discontinuità).

Il che significa, intrepretando letteralmente, che un Pir aperto/sottoscritto nel mese di maggio, per esempio, non consentirebbe di usufruire del regime di non imponibilità per quell’anno solare (sempre che non sopraggiungano chiarimenti in merito a un’eventuale applicazione del pro-rata temporis riferito all’anno solare); il rischio, per quanto concerne gli strumenti azionari, di un’eccessiva concentrazione geografica (e, quindi una scarsa diversificazione) su un mercato (Borsa Italiana) caratterizzato da una non elevata presenza di titoli (circa 300 aziende a differenza di altri omologhi, quali quello francese, in cui sono presenti migliaia di titoli).

Oltre al rischio connesso alla bassa liquidità e alla volatilità proprio dei titoli a più bassa capitalizzazione (per esempio, nel segmento AIM, dove sono presenti circa 80 titoli, rispetto alle 3mila unità di quello inglese). Tutti elementi che possono determinare, nel tempo, quotazioni elevate (gonfiate) rispetto ai fondamentali in virtù dei flussi in entrata, con consequenziali possibili ricadute (qualora vi fosse la volontà/ necessità di rivendita prima dei 5 anni si perderebbero i benefici fiscali); la necessità di valutare bene, oltre ai costi (che rischiano di vanificare il vantaggio fiscale derivante dalla detassazione degli utili) anche l’expertise dei gestori nel posizionarsi anche sull’universo delle aziende non quotate.

D’altra parte, è dato modo di riscontrare come, nonostante molti regolamenti di fondi comuni prevedano già oggi la possibilità di investire fino al 10% in società non quotate, su tale segmento non si sia mai in pratica intervenuti (anche per motivi di trasparenza, visibilità e rischiosità); la difficoltà di realizzare il contenitore Pir sotto forma di polizza vita (prevalentemente di ramo I) in funzione delle caratteristiche e dei limiti regolamentari di questi prodotti (prevalentemente, in termini di diversificazione e rischiosità degli investimenti) che mal si conciliano con i vincoli alla composizione di portafoglio dei Pir stessi.

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