martedì 8 novembre 2016

Obbligazioni Montepaschi Siena a rischio conversione

Nessuno si farà mai citare, ma l’ipotesi di convertire in equity anche i bond senior di Montepaschi per ricapitalizzare la banca è stata una doccia fredda per gli investitori. I commenti tra gli addetti ai lavori sono del seguente tenore: «se il management sta pensando di fare questa proposta agli obbligazionisti senior, significa che siamo alle soglie del bail-in».

D’altra parte è vero che la banca ha messo in atto una serie di misure tese a recuperare redditività e si è attivata per liberarsi del monte sofferenze che grava sui bilanci, ma è anche vero che nuovi crediti deteriorati continua a formarsi: nel secondo trimestre lo sono diventati esposizioni per 500 milioni di euro, dopo gli 800 milioni del primo trimestre e 1,2 miliardi ogni trimestre del 2015; dati compensati solo in parte dal passaggio in bonis di crediti deteriorati per 370 milioni nel secondo trimestre, dopo i 450 milioni del primo trimestre e i 300 milioni medi a trimestre del 2015.
E di questi nuovi crediti deteriorati netti, va considerato che una buona parte si trasformerà a sua volta in sofferenza, e saranno necessari altri miliardi di capitale a copertura delle svalutazioni, oltre ai 5 miliardi calcolati sull’attuale monte di sofferenze. I bond subordinati in circolazione di taglio superiore ai 50 milioni valgono nel complesso 5 miliardi di nominale. Ci sono poi circa 10 miliardi di bond senior, sempre di importo superiore ai 50 milioni, e tra senior e subordinati di questa taglia sono ben 10 miliardi quelli in scadenza entro la fine dell’anno prossimo. Certamente una base importante cui attingere, ma perché l’ipotesi non si trasformi in un boomerang, l’offerta agli obbligazionisti va strutturata con molta oculatezza.

Anche perché una bella fetta di bond subordinati è oggi in portafoglio a investitori istituzionali specializzati che a inizio luglio hanno acquistato i subordinati al momento di crollo delle quotazioni, all’indomani della pubblicazione della lettera della Bce che intimava alla banca senese di ridurre in misura significativa i non performing loan in bilancio nel giro di tre anni. Proprio all’indomani della lettera della Bce e in presenza del crollo dei subordinati, lo scorso 10 luglio MF-Milano Finanza aveva avanzato l’ipotesi che una strada per ricapitalizzare la banca avrebbe potuto essere la conversione dei bond subordinati, a quel punto già considerati dal mercato alla stregua di capitale azionario. In quei giorni i titoli junior avevano toccato minimi prossimi ai livelli di insolvenza. Per esempio, il perpetuo junior con opzione call a fine dicembre 2016, peraltro nei portafogli di investitori retail, era arrivato a quotare poco sopra i 32 centesimi di nominale e anche gli altri due perpetui junior subordinati in possesso degli investitori privati, quello senza call e cedola 6% e quello con cedola 6% e richiamo al febbraio 2017, a inizio luglio si attestavano sui 33 centesimi. Non che oggi le cose vadano molto meglio, visto che quei bond viaggiano attorno ai 47-48 centesimi (si veda tabella alla pagina a fianco), ma è comunque già un buon guadagno per quei fondi. Capofila del gruppo è Attestor Capital, fondo britannico specializzato in distressed asset e ristrutturazioni aziendali, che in Italia ha investito in Ferroli e in Oleifici Mataluni-Olio Dante al fianco di Oxy Capital, mettendo a disposizione un totale di 200 milioni da investire in due anni per dotare di nuove risorse le pmi in difficoltà, affiancandole in un percorso di rilancio.

L’operazione Mps, però, era stata orchestrata direttamente da Londra e, secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, è puramente finanziaria. Obiettivo di Attestor e dei suoi compagni di viaggio (si fanno i nomi di Bybrook Capital, Centerbridge, Eton Park ed Eyck Capital) era infatti quello di guadagnare in occasione dell’eventuale conversione in capitale dei bond. È ragionevole ipotizzare che l’offerta di conversione sarà strutturata prevedendo un periodo di lock up per i nuovi azionisti, ma in ogni caso l’obiettivo di quei fondi non è certo occuparsi della gestione della banca. Sino a quando saranno obbligati a tenere le azioni in portafoglio le terranno e poi le venderanno. nel frattempo, però, voteranno in assemblea e quel voto avrà un peso importante. Il tutto, certo, se ci sarà convenienza alla conversione. E qui si arriva al punto cruciale. Gli obbligazionisti istituzionali si aspettano che l’offerta di conversione valuti l’attuale capitale della banca sostanzialmente come se fosse il valore del diritto d’opzione per sottoscrivere l’aumento.

Il concetto, insomma, è che oggi la banca valga solo quell’opzione e che quindi gli azionisti attuali debbano avere il diritto a sottoscrivere l’aumento a un prezzo scontato, con lo sconto che corrisponde esattamente al valore del diritto. Ma la somma del prezzo pagato dai vecchi azionisti più lo sconto dovrebbe dare il prezzo pagato da un obbligazionista subordinato, mentre il prezzo pagato da un obbligazionista senior dovrebbe porsi poco sopra quello pagato dal vecchio socio. Un esempio. Se agli azionisti fosse proposto di sottoscrivere nuove azioni Mps a un prezzo di 1 euro per azione, agli obbligazionisti subordinati potrebbe essere proposto di ottenere un’azione Mps del valore di un euro ogni 2 euro di nominale di obbligazioni subordinate, mentre agli obbligazionisti senior si potrebbe offrire un’azione Mps ogni 1,2-1,3 euro detenuti sotto forma di bond senior. Il tutto con i vecchi azionisti che vedrebbero però praticamente azzerato il valore delle vecchie azioni e con tutti gli azionisti risultanti da questa operazione che si troverebbero sullo stesso piano.

Gli investitori più aggressivi ragionano in maniera molto fredda. Spiegano che la capitalizzazione di molte banche italiane consiste nel valore di mercato di un paio di opzioni: da un lato l’avviamento di oggi potrebbe valere di più domani, grazie alle misure di ristrutturazione messe in atto; dall’altro, nel caso di ritorno agli utili, la banca potrebbe beneficiare dei deferred asset, cioè dei mancati risparmi fiscali delle banche relativi alle perdite su crediti derivanti da cessioni avvenute prima della legge che ha permesso l’ammortamento delle perdite in un solo anno. A compensazione, quei mancati risparmi potranno contribuire ad abbattere il carico fiscale futuro delle banche, quando faranno un utile. Ma a oggi, dal punto di vista degli investitori, non hanno un vero valore. Diciamo appunto che si tratta di un’opzione. Un’altra spinta a convertire verrebbe poi certamente da un incentivo fiscale sull’eventuale capital gain che dovesse derivare in futuro da un rilancio della banca e quindi dall’apprezzamento dell’equity. In fondo per il governo sarebbe un’operazione neutra, visto che oggi il Tesoro incassa la ritenuta sugli interessi dei bond e un domani incasserebbe quella sui dividendi.

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