lunedì 11 gennaio 2016

Dove investire nel 2016 - tra btp e obbligazioni quali scegliere?

Se il 2015 ha dato le sue gatte da pelare agli investitori, il 2016 si presenta fin dall’inizio come una partita a scacchi: mentre l’anno scorso sono stati due shock esterni, ovvero il quasi-fallimento della Grecia e la bufera cinese che si è scatenata a metà agosto, a rendere più incerti i buoni risultati obbligazionari e a compromettere le promesse rialziste sfoggiate nel primo trimestre dai mercati azionari in scia al sospirato via libera del Quantitative easing nell’Eurozona, quest’anno la caccia al rendimento si profila dura fin dall’inizio.

L’avvio dell’anno scorso presentava infatti alcune importanti idee forti tramite le quali mettere a frutto gli investimenti: il Qe in veste europea che era nell’aria fin dalle ultime battute del 2014, e poi annunciato dalla Bce a metà gennaio, offriva l’opportunità di cavalcare sia l’attesa debolezza della moneta unica attraverso impieghi monetari e in bond denominati nelle valute in odore di sensibile rafforzamento (dollaro in testa, ma anche sterlina), sia i titoli di Stato a media e lunga scadenza dell’Eurozona oggetto del Qe (Btp in primis), sia i listini azionari dell’euro, spinti dalle banche (beneficiarie dell’apprezzamento dei bond e del restringimento degli spread con la Germania) e dai titoli industriali favoriti dalla debolezza della moneta unica. Il 2016, al contrario, non lascia intravedere alcuna idea base di partenza: l’ultimo mese del 2015 si è infatti concluso con una mezza delusione proveniente dalla Banca centrale europea, dove l’asse tedesco ha negato il via libera a un aumento degli acquisti mensili di bond nell’ambito del programma di quantitative easing esteso fino a marzo 2017, mentre la Federal Reserve ha dato il via al primo giro di vite ai tassi dopo sette anni di costo del denaro a zero, sciogliendo in apparenza la prognosi riservata all’economia Usa.

In realtà rimangono sul tappeto gli stessi problemi, casomai lievitati, che a settembre 2015 avevano indotto il board della Fed a rimandare la strada intrapresa poi a dicembre: sul fronte esterno è infatti proseguito il prolungato rallentamento dell’economia cinese, alle prese con il tentativo di svincolarsi dalla dipendenza delle esportazioni per camminare di più sulle gambe della domanda interna, e conseguentemente l’affanno che caratterizza i prezzi di numerose materie prime (tra cui il petrolio) con pesanti ripercussioni sui Paesi produttori, tra cui figurano importanti economie emergenti le cui valute si trovano sotto pressione dal secondo semestre dello scorso anno.

L’impatto tanto sull’inflazione, che fatica a riprendere quota con il prezzo del petrolio sui minimi del 2009, quanto sull’export è evidente per l’Europa e ancora di più per gli Usa, dove la forza del dollaro rende più costose le esportazioni: la Corporate America sta infatti facendo i conti con il rallentamento del tasso di crescita degli utili aziendali che, dopo aver raggiunto il picco nel settembre 2014, sta evidenziando da quattro trimestri una perdita di momentum che preoccupa gli operatori. In alcuni casi la preoccupazione è tale da attribuire una probabilità superiore al 50% di vedere l’economia americana in recessione nel giro dei prossimo biennio, leggendo alcuni studi di operatori del calibro di Citi, JP Morgan e Credit Suisse sulle statistiche storiche dell’andamento del tasso di crescita degli utili aziendali. Molto dipenderà dalla velocità di esecuzione dei prossimi rincari al costo del denaro Usa, che la Fed ha sempre visto come molto graduali, e non necessariamente in misura pari allo 0,25% ciascuno, mentre i mercati li vedono più frequenti: la media si posiziona almeno su altri tre rialzi, se non quattro, da 25 centesimi nel corso 2016 a partire al più tardi dal meeting di marzo, ma le presidenziali di novembre e i problemi sul tappeto, assieme a un nuovo sensibile rafforzamento del dollaro che risulterebbe eccessivamente penalizzante per le esportazioni americane, suggeriscono la possibilità di assistere al massimo a due rincari da un quarto di punto, soprattutto se dall’asse tedesco arriverà il via libera, com’è probabile tra qualche mese in assenza di risveglio dell’inflazione, a un incremento degli acquisti mensili di bond nell’ambito del programma di Quantitative easing varato nel marzo 2015 dalla Bce.

In quest’ottica, la ragione più concreta, o almeno coesistente con altre più tradizionali, per cui la Banca centrale americana avrebbe intrapreso la strada del rialzo dei tassi si ritrova nel creare il margine di manovra necessario affinché la politica monetaria sia rimessa in grado di affrontare, tramite un nuovo percorso di riduzione del costo denaro, un’eventuale ricaduta del pil nei trimestri a venire. Altrimenti, con i tassi già vicini allo zero e un debito pubblico superiore al 100% del pil, gli Stati Uniti non avrebbero a disposizione alcuno strumento di politica economica per attenuare una possibile frenata congiunturale, tenendo anche conto che il bilancio della Banca centrale Usa è ancora gonfio di tutti i dollari stampati e messi in circolazione nell’ambito delle tre ondate di Quantitative easing varate dal 2009. In realtà mancano proprio i bersagli da inquadrare: il Qe annunciato dalla Bce nel gennaio 2015 ha spinto le quotazioni dei titoli di Stato dell’Eurozona sui massimi, comprimendone i ritorni a minimi termini, tant’è che i rendimenti dei bond tedeschi sono negativi fino alla scadenza di 5 anni; allungando la scadenza, il decennale della Germania restituisce un misero 0,65% che si alza all’1,6% per il Btp a 10 anni.

Scontando già nei prezzi un programma di Qe protratto fino a marzo 2017, annunciato dell’Eurotower nell’ultimo meeting di dicembre, risulta quindi difficile ipotizzare un nuovo volo dei corsi dei bond capace di rimpolpare in conto capitale i bassi ritorni offerti dalle cedole: nello scenario più ottimistico, che abbraccia l’ipotesi di un incremento degli acquisti mensili di bond effettuati dalla Bce nell’ambito del Qe in atto, si può sperare in un’ulteriore riduzione dello spread Btp-Bund verso il livello storico compreso tra 60 e 75 centesimi, area relativa alla seconda parte del 2009 riferita ai mesi immediatamente precedenti al primo shock proveniente a sorpresa dalla Grecia, che si tradurrebbe in nuovo passo in avanti dei corsi del decennale italiano in grado di portare verso un più corposo 3,5-4% il relativo total return del 2016 (guadagno in conto capitale più guadagno in conto interessi).

Al di fuori di questo scenario positivo, che comunque non raggiunge il total return vicino al 7% restituito dal Btp decennale nel 2015, non si riscontrano altre mete obbligazionarie sufficientemente appetibili nell’area euro: i prezzi dei corporate bond di tipo investment grade non sono certo a buon mercato, offrendo ritorni anche in questo caso poco consistenti che in alcuni casi non coprono nemmeno il maggior grado di rischiosità dell’investimento rispetto ai titoli di Stato. Tant’è che più di una voce segnala un’eccessiva sottovalutazione del rischio da parte dei mercati. Un primo riscontro in questo senso arriva dai corporate bond Usa di tipo high-yield, ovvero speculative grade, che in dicembre hanno vissuto un generale deprezzamento in scia al blocco temporaneo dei riscatti del fondo americano Third Avenue dedicato a questa categoria di obbligazioni ad alto rendimento, sottolineando che già la debole liquidità del mercato dei corporate bond rappresenta di per sé un fattore di rischio aggiuntivo, cui va aggiunta la dose di rischio in capo all’emittente, o credit risk, che risulta appunta sottovalutata ai prezzi attuali.

L’importanza di questo fattore di rischio è ben riconosciuta dalle Authority occidentali, che stanno stringendo le maglie normative sulla liquidità dopo la crisi del 2008: proprio la Sec americana, che è molto preoccupata per la liquidità dei fondi, ha proposto regole che mettono sotto pressione i gestori di fondi sul fronte della trasparenza delle posizioni di portafoglio e sul numero di giorni che occorrono per convertirle in liquidità. In base alle nuove norme, che sono attualmente in consultazione, i gestori dei fondi domiciliati negli Usa sono chiamati a classificare i propri comparti in base al numero di giorni necessari a convertire i propri asset in cash; ai money manager è anche richiesto di detenere un ammontare minimo di titoli che può essere liquidato in tre giorni senza che questo influenzi il prezzo. Il deprezzamento dei bond high- yield Usa si è riflesso, in modo più attenuato, sulle obbligazioni speculative grade dell’area euro, meno esposte ai pesanti scivoloni delle cugine americane grazie a un tasso di insolvenza più basso e a un maggiore stato di liquidità (il bid/ask spread supera comunque l’1%), che smussano solo in parte la rischiosità fisiologicamente elevata dell’investimento suggerendo di non spingersi oltre i tre anni di scadenza.

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