lunedì 25 gennaio 2016

Previsioni sul petrolio nel 2016 - analisi di dettaglio

La scorsa settimana sarà ricordata come quella che ha visto scendere stabilmente il prezzo del petrolio sotto i 30 dollari al barile, travolto da un profluvio di vendite e dalla consapevolezza che la capacità produttiva supera tuttora la domanda. A tutto ciò si è aggiunta la notizia, diffusa sui mercati venerdì 15 gennaio, che l’Iran porterà sui mercati il suo petrolio un mese prima del previsto, grazie all’anticipo della rimozione delle sanzioni in forza dell’accordo raggiunto con Usa ed Europa a luglio del 2015. Scrive Marketwatch (gruppo Wall Street Journal) che secondo un’analisi del gruppo bancario Anz (Australia and New Zealand Banking Group) il ministro del Petrolio iraniano Bijan Namdar Zanganeh e il presidente Hassan Rohani si sarebbero già impegnati ad aumentare la produzione di 500 mila barili al giorno entro alcune settimane dalla fine delle sanzioni e della stessa quantità fra sei mesi.
Con una struttura del mercato tanto sbilanciata dal lato dell’offerta, il vero problema che sta affliggendo l’ex oro nero, esiste il rischio che le quotazioni proseguano la loro corsa al ribasso fin verso i 20 dollari al barile, prima che l’equilibrio tra domanda e offerta venga ristabilito nella seconda metà del 2016, il che dovrebbe riportare lentamente il greggio verso i 40-60 dollari. Intanto il cartello dell’Opec è molto vicino a essere una reliquia del passato, anzi, secondo i più, è già un dinosauro. Il problema dei cartelli di produzione è che il loro scopo è mantenere artificialmente i prezzi sopra un determinato livello di equilibrio.

Ma ciò incoraggia gli altri membri a truffare sulle quote, e invita i produttori esterni al cartello a unirsi al banchetto. Perciò il leader del cartello, in questo caso l’Arabia Saudita, è costretto a tagliare la propria produzione onde evitare il collasso delle quotazioni. Questo gioco è andato avanti per anni e anni, con il brillante risultato che la quota Opec della produzione globale è scesa dal 50% del 1979 a circa il 36% attuale, anche a seguito dell’ingresso di altri formidabili produttori, primi fra tutti i russi, i canadesi e gli statunitensi. A un certo punto la quota saudita è scesa a livelli ritenuti inaccettabili dagli sceicchi e Riyad ha deciso di imbarcarsi in una risoluta e drammatica guerra dei prezzi, con la quale intende dimostrare la sua capacità di produttore a basso costo (Riyad è in grado di produrre a 10 dollari al barile), e quindi sbaragliare i concorrenti, specialmente i produttori nordamericani. L’atto di guerra venne formalizzato nella drammatica riunione dell’Opec del 27 novembre 2014, durante la quale i sauditi rifiutarono fermamente di tagliare la produzione, che infatti incominciò a salire, aggravando il preesistente scompenso dovuto a un eccesso di capacità produttiva: insomma troppo petrolio girava e gira ancora per il mondo.

A ciò si aggiunge una particolarità del mercato petrolifero: in genere, quando il prezzo di un bene scende, l’offerta tende a ridursi, ma non così per i prodotti energetici. Siccome molte di queste nazioni vivono prevalentemente di petrolio, quando il prezzo di questa materia prima scende, esse cercano di venderne ancora di più, nel tentativo di mantenere invariato il fatturato. Per esempio, petrolio e gas naturale rappresentano i due terzi dell’export russo, sicché se il loro prezzo cala, i russi si sforzano di venderne ancora di più al fine di incassare il massimo possibile. Ma naturalmente c’è un rovescio della medaglia: gettando sul mercato crescenti quantità di materia prima, le pressioni al ribasso sui prezzi si intensificano.

Qual è il prezzo d’equilibrio? A questo punto bisogna chiedersi dove può fermarsi il tonfo delle quotazioni. Diversi ragionamenti sono stati presentati dagli analisti per cercare di vaticinarne il futuro. Poco utile è il prezzo del petrolio al quale i Paesi esportatori raggiungono il pareggio di bilancio e che va dai 47 dollari al barile per il Kuwait, ai 78 dollari della Russia, ai 106 dollari per l’Arabia Saudita, fino a salire ai 215 dollari per la Libia. Questi prezzi suggeriscono semmai che più a lungo rimangono basse le quotazioni degli idrocarburi, più si accumulano le tensioni nei Paesi produttori. In effetti il primo Paese produttore a sciogliersi come neve al sole è stato il Venezuela, che avrebbe bisogno di prezzi intorno a 90 dollari al barile per pareggiare i suoi conti, e che praticamente è finito in bancarotta. 

La Russia, il Canada e il Brasile mostrano segni di grande e crescente sofferenza, come riflesso nella debolezza delle loro valute. Un altro metro che è stato proposto per cercare di capire dove potrà stabilizzarsi il prezzo del barile è il costo medio del greggio lungo tutto l’arco di produzione, a partire dall’esplorazione fino a risalire all’estrazione. Questo costo per la maggior parte dei produttori nordamericani di shale oil è intorno a 65 dollari. Eog Resources, un’azienda leader in questo campo, ritiene però che a 40 dollari al barile è in grado ancora di realizzare un profitto di 10 dollari al barile. Molto più robusti sono i Paesi del Medio Oriente, che hanno costi complessivi tra 10 e 20 dollari. Secondo parecchi osservatori, a circa 40 al barile pochi produttori internazionali vedono davvero la loro sopravvivenza a rischio. Per cui, a sentire i più pessimisti, in un’autentica e feroce guerra tesa a eliminare il più debole, l’unico prezzo che conta è quello marginale, cioè il costo per estrarre e vendere un barile di petrolio oggi, con le infrastrutture già costruite e gli investimenti già eseguiti.

Da questo punto di vista, si ritiene che i più efficienti produttori statunitensi abbiano un costo marginale tra 10 e 20 dollari al barile, più o meno in linea con i concorrenti del Golfo Persico. A loro volta, i russi, che senza il petrolio sarebbero alla canna del gas, sono disponibili a vendere anche in perdita, a qualsiasi prezzo. Ma a tutto questo si aggiunge un ulteriore problema: la produzione corrente di greggio supera di circa 2 milioni di barili al giorno i 93,6 milioni che quotidianamente sono richiesti dalle varie categorie di consumatori in tutto il mondo. La differenza viene riversata da mesi negli impianti di stoccaggio, che a questo punto sono stracolmi, e rappresentano un’ipoteca sulle future quotazioni degli idrocarburi.

Alcuni pronosticano che tra qualche mese questi depositi saranno pieni, quindi incapaci di assorbire nuovi travasi. E allora, il prezzo del petrolio non potrebbe che cadere come un sasso, forse addirittura verso 10 dollari al barile. Royal Bank of Scotland prevede per esempio che il prezzo possa toccare quota 16 dollari. Ma anche chi non è così pessimista, considera gli immensi stoccaggi di petrolio esistenti come un peso sulle future quotazioni dell’energia, perché, presto o tardi, in un modo o nell’altro, finiranno sul mercato. La Bca Research, una società di ricerca indipendente, propone un grafico molto interessante, pubblicato a pagina 12. Il grafico traccia l’andamento del petrolio in termini reali (cioè al netto dell’inflazione) dal 1900 in avanti. E si nota, che eccezion fatta per periodi transitori di boom o di crollo, il prezzo del greggio tende a mantenersi costante. Bca Research ha ripetuto l’analisi per l’intero gruppo delle materie prime lungo addirittura 350 anni, giungendo al medesimo risultato: le materie prime, incluso il petrolio, tendono nel lungo termine a crescere né più né meno che al tasso medio degli altri prezzi, cioè dell’inflazione.

A volte capita che si scolli da questa traiettoria, per esempio in risposta all’industrializzazione della Cina, ma poi le nuove tecnologie consentono di accrescere l’offerta e il prezzo dell’energia torna indietro verso l’equilibrio di lungo termine. Il prezzo del petrolio è superiore del 15% circa al valore medio multisecolare, che è intorno a 25 dollari al barile. Naturalmente in questi casi, nulla toglie che si possa passare da un eccesso all’altro, con punte sotto i 20 dollari al barile. Lo schianto del barile ha naturalmente innescato una netta contrazione degli investimenti. Sia l’Opec sia l’Agenzia Internazionale per l’Energia stimano un taglio degli investimenti del 20% nel 2015. I piccoli petrolieri americani cominciano ad andare a gambe all’aria, con le relative obbligazioni spazzatura che hanno subito gravi flessioni verso fine anno. Metà dei petrolieri canadesi è in perdita e più profonde sofferenze accompagneranno il 2016. Di conseguenza, stime attendibili annunciano una riduzione di circa 1 milione di barili al giorno dell’offerta dei produttori nordamericani e di 1,5 milioni quella delle più costose produzioni offshore.

Al contempo, se non si verifica una recessione globale, la domanda internazionale dovrebbe crescere di circa 1,2 milioni di barili. E con un po’ di fortuna, nella seconda metà dell’anno il mercato petrolifero dovrebbe ritrovare un certo equilibrio, dopo essere prima scivolato verso i 20 dollari al barile. Ma come osservava a ragione il grande fisico nucleare, Niels Bohr, fare previsioni è difficile, specialmente riguardo al futuro. Così molti eventi potrebbero ancora spingere le quotazioni in una direzione o nell’altra. Per esempio, una maggiore produzione petrolifera irakena e iraniana, come accennato in precedenza, oppure una recessione in Occidente potrebbe spingere i prezzi verso 10 dollari al barile. Al contrario, l’inasprirsi della mai celata acredine tra Iran e l’Arabia Saudita di re Salman bin Abud al-Aziz Alk Saud potrebbe mettere le ali ai prezzi e invertire la tendenza in un battibaleno. Cosa che a Riyadh a parte tutto farebbe molto comodo considerata l’elefantiasi del proprio settore pubblico. Foraggiato naturalmente dal petrolio.

0 commenti:

Posta un commento