mercoledì 14 gennaio 2015

Come investire sui paesi emergenti nel 2015

investire paesi emergenti 2015Ruchir Sharma, head of emerging markets & global macro di Morgan Stanley Investment Management è uno strano caso di gestore e giornalista, nonché scrittore. Infatti la sua carriera nei servizi finanziari cominciò nei primi anni '90 come commentatore economico nella natia India.

Notato dagli uffici locali di Morgan Stanley, da allora Sharma è diventato uno dei più importanti gestori sull'azionario emergente con la responsabilità di decine di miliardi di dollari di asset. Fondi&Sicav ha avuto modo di incontrarlo a Milano, in occasione della presentazione dell'edizione italiana del suo best-seller del 2012: Breakout Nations.

Come descriverebbe la situazione attuale degli emergenti? «Il gruppo di paesi che va sotto questa definizione ha attraversato nel corso degli anni 2000 una fase di crescita generalizzata che probabilmente non si ripeterà più. Generalmente, infatti, ogni 12 mesi circa il 10-15% delle economie al mondo chiude l'anno con una contrazione del Pil. Nel 2007, poco prima della crisi finanziaria, solo tre nazioni avevano visto il proprio output ridursi: Fiji, Zimbabwe e Congo. Ciò ha creato l'idea che il mondo emergente fosse un blocco unico destinato in toto a superare l'occidente. Mi ricordo che nel 2010, all'apice dell'ottimismo nei confronti di questi mercati, mi ritrovai a Mosca per una presentazione sulle prospettive dell'economia locale di fronte all'allora primo ministro Putin.

Dissi in maniera chiara che la Russia, agli albori degli anni 2000 era un ottimo posto dove investire: vi era una forte probabilità di vedere una ripresa dei corsi delle materie prime, riforme nella direzione del libero mercato erano in corso di attuazione e c’era una serie di altri elementi positivi. Aggiunsi anche però che questi driver di crescita si stavano esaurendo: l'economia dipendeva troppo dai prezzi delle risorse naturali, mentre il quadro legislativo e l'intervento della mano pubblica rimanevano troppo soffocanti, specialmente per quanto riguarda la creazione di un solido tessuto di piccole e medie imprese. Ciò che non sapevo era che la conferenza veniva trasmessa in diretta sulla tv nazionale: il giorno dopo mi trovai violentemente attaccato sui media russi».

Che cosa prevede dunque per gli emergenti? «Il concetto di emerging in sé è sostanzialmente un mito: spesso capita che diversi paesi riescano a mettere a segno, di solito in seguito a cambi di leadership politica che portano con loro un processo di riforme, decenni di elevata crescita del Pil. Raramente, però, questi fenomeni durano: storicamente solamente circa un terzo delle economie, dopo essere cresciute per 10 anni a un tasso almeno pari al 5% all'anno, riesce a ripetere una simile performance nel decennio successivo. Finora solo sei sono riusciti a mettere a segno incrementi del Pil pari al 5% annuo ogni 10 anni per quattro decenni di fila e solo due (Corea del sud e Taiwan) l'hanno fatto per cinque. La Cina oggi è nel mezzo del proprio quarto decennio ad alta crescita. Per questo finora pochissime realtà sono riuscite a superare la cosiddetta middle-income trap e diventare nazioni sviluppate».

Che cosa prevede per il Dragone? «Non prevediamo un hard landing, ma sicuramente un rallentamento economico. Innanzitutto ormai l'economia cinese ha raggiunto un livello di crescita tale che appare impossibile continuare ad aumentare il Pil a ritmi dell'8% all'anno. Inoltre, come ben si sa, il sistema finanziario locale ha evidenziato un'espansione del credito gigantesca, la maggiore che si sia mai vista fra gli emerging. I nostri studi indicano che in oltre il 70% dei casi, a fronte di un simile sviluppo del rapporto debito/Pil, si verifica una crisi finanziaria e che nella totalità dei casi le nazioni emergenti che hanno sperimentato uno sviluppo finanziario di questo tipo vedono il loro incremento nel quinquennio successivo aumentare a un ritmo pari alla metà rispetto a quello registrato nel lustro precedente. Pertanto se la storia dovesse ripetersi, la Cina nei prossimi anni potrebbe vedere il proprio trend di aumento dell'output intorno al 4-5%».

Quali conseguenze avrà un simile fenomeno? «Pensiamo che a soffrire saranno soprattutto quelle nazioni che dipendono eccessivamente dalle materie prime. L'economia russa era già in rallentamento quest'anno, prima della vicenda ucraina: difficilmente si vedrà una crescita. Per il Brasile prevediamo per i prossimi anni un'ascesa del Pil intorno al 2%».

Quali conseguenze devono trarre gli investitori su questa asset class? «L'approccio che noi adottiamo è essenzialmente contrarian value: l'azionario emergente, infatti, offre le prospettive migliori di rendimento quando la fiducia degli investitori è bassa. Basti pensare a quanto successo di recente, con il mercato indiano che è salito in maniera notevole dopo la vittoria del partito nazionalista Hindu alle elezioni: le promesse di riforme in direzione del libero mercato hanno spinto l'equity locale. Peraltro si tratta di un fenomeno tipico della borsa indiana, che tende a sovraperformare quando la coalizione al governo viene sconfitta alle urne, proprio sull'onda di speranze di cambiamenti».

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